10 aprile 2020

La cura al virus è lo stato di polizia?

Così su Avvenire di martedì scorso si intitolava il lungo articolo del filosofo coreano Byung-chul Han, che insegna a Berlino e di cui mi era capitato di leggere qualcosa in passato. All'inizio sembrava esaltasse il sistema di contenimento del virus in Cina, Corea e Taiwan attraverso l'uso del controllo digitale, attraverso droni, videocamere, sms, "corona app" che registra i luoghi visitati dagli infetti e che ha ottenuto eccellenti risultati rispetto a quel che capita in Europa e in particolare in Italia. Poi, andando avanti a leggere, si capisce che sta dicendo che in Asia si è poco sensibili alla privacy e alla protezione dalla sorveglianza digitale, perciò si accetta queste misure da "Grande Fratello".
Non è facile per una democrazia tenere insieme la necessità di affrontare il virus e la necessità di non svendere la democrazia. Nello stesso tempo concludeva dicendo che il virus non provocherà nessuna rivoluzione e nessun cambiamento radicale, a meno che gli esseri umani non imparino da quest'esperienza e non apportino loro dei cambiamenti. Direi dei cambiamenti ad un sistema economico mondiale che sembra un negozio di cristalleria e ad uno stile politico che sembra il mercato del pesce.

"Il Signore Dio prese l'uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse." (Gn 2,15)

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